Un mito, a suo modo è un romanzo a tematica lesbica, colto, pieno di citazioni e rimandi nello stile e nei contenuti, la libertà espressiva è totale e fa del testo un divertimento letterario intelligente e irresistibile.
Già dalle prime pagine è chiara la matrice di riferimento, dall’amato Gozzano su per la tradizione che passa per Gadda e arriva ad Arbasino, è tutto un rimando ai paesaggi e personaggi dell’Adalgisa gaddiana e della Bella di Lodi di arbasiniana memoria. Ma sarebbe riduttivo ricondurre la scrittura della Guazzo ai colti e divertiti rimandi presenti nell’opera: l’autrice ha una scrittura propria e uno stile che meritano una riflessione a parte. Una narrazione a più voci, tutte rigorosamente femminili. L’azione è frammentata, sono schegge di vita vissuta o pensata che vivono nella pagina. I tanti ritratti di donne, così diverse, così uguali talvolta, costituiscono una polifonia fatta di dissonanze. Gli amori, le vite, non è possibile riportarle a nessun denominatore comune se non quello dell’eterna ricerca di una felicità forse possibile certo bramata e desiderata, ognuna a suo modo. La libertà d’espressione e di amore, è la matrice comune. Si respirano nei racconti dei viaggi nell’amatissima Spagna, i colori, i profumi, quel sogno di liberazione che il Paese rappresenta, una terra lontana e altra fatta tutta per amare, così lontana dalle costrizioni dell’odiata provincia. Si respira nei frammenti dei dialoghi, dove le donne si interrogano e si confessano sui gusti (sessuali-letterari-culinari- tout court).

http://www.edizionicroce.com/libro.asp?idlibro=41

lunedì 12 luglio 2010

Paola Guazzo - Un mito, a suo modo - Recensione di Alessandra Cenni su "Leggere Donna"



Recensione di Alessandra Cenni sul numero 146 di "Leggere donna".



Lesbolinguismi in libertà

Un mito, a suo modo di Paola Guazzo
Edizioni Libreria Croce



“Costruisci poemi di taverne e di guadi, in diversi registri o semi… nella terra in cui sei nata..”

E’ questa la chiave di comprensione di questo romanzo? Domanda oziosa. Le porte sono tutte aperte.

Innanzitutto, perchè il romanzo di Alice nel black hole lsb- Paola Guazzo sfugge a ogni definizione: un romanzo transgender che ha un tale strato di invenzione da scartarli tutti i generi, come caramelle da ingoiare senza carta, dissacrandone la letterarietà grazie a una padronanza dei mezzi linguistici che dura dalla prima all’ultima pagina. “Il vero mestiere dell’animale è scrivere romanzi”, Stendhal. E’ una delle centomila citazioni.

Certo, possiamo trovare riferimenti interni nei modelli letterari nella zona del plurilinguismo e contaminazione: ovviamente Arbasino e Sanguineti, ma anche Ortese (per le trottole fiabesco-oniriche), e forse più lontano la innominabile Djuna Barnes, per il catalogo dongiovannesco dell’ Almanacco delle Signore. Pur essendo scrittrice colta, anzi, iperletteraria, e connettendo il tessuto linguistico di una quantità di riferimenti Guazzo le sorpassa a sinistra, dando la schiena alla letteratura. In questo, credo, consiste l’originalità del libro,dal plot in continuo sfaldamento, prova di esordio di una personalità sociale impuramente e impunemente creativa. (“Sostituire la barra lacaniana con un bar lesbico”). Romance?

“Mondo difficile e gentile” il suo è libro autobiografico, confessionale ed epico come solo le memorie lungamente disattese possono essere. Vi si riconosce una generazione s-catenata (letteralmente) che, stanca del ribellismo separatista delle assemblee permanenti e degli onanistici logorroici gruppi di autocoscienza, comincia a staccarsi dal generico attivismo femminista per riconoscersi orgogliosamente lesbica ed elaborare una cultura specifica, di tendenza, autonoma, rispetto al generico donna è bello. Non è bello per niente se il mondo è organizzato secondo un eterodomino e le donne tra loro devono abbassare sguardi e voglie. Queste bad girls (o come diceva una nostra amica:le Donnacce) hanno invaso allegramente e spudoratamente locali e bar, proclamato l’importanza dei luoghi e degli esterni dove conoscersi e innamorarsi e desiderarsi sessualmente. Disimpegnate, figlie del riflusso? Può darsi per le jurassiche avanguardie storiche, non per le lesbiche ventenni che si affacciavano alla scena “verso la cava metà degli anni ottanta”, pretendendo visibilità differente da quella dei fratelli gay e coniugando un nuovo verbilinguismo con l’ appartenere a se stesse, al proprio meccanismo desiderante, oliato per la pelle e i suoi umori. Un materialismo dialettico, impregnato di alterne ebbrezze orgasmiche e notti bianche, fumo, birra e sbandamenti adolescenziali, perdite di senso e risvegli dei sensi, come ogni epopea postmoderna sperimenta liberamente prima di potersi celebrare. E non poteva, Paola, scrivere subito e allora di tutto ciò. Occorreva aspettare che l’onda rientrasse e la calma apparente facesse depositare in vitro quelle vivide esperienze ora decantate, di nuovo irriflesse. Non fare un romanzo politico né storico, forse diventarlo, secondo il ribaltamento kristeviano: corpo delle /donne corpo rivoluzionario, esterica/ere/otica (autocit.), scrittura golosa bramosia.

Finalmente, il risultato non è il solito ciarpame lacrimevole dove qualcuna, la più colpevole, deve ammalarsi e morire, non c’è alcun senso di colpa, alcun senso di morte qui dentro come in tanta tardoromantica produzione romanzesca gaylsb. Per fortuna l’ironia, tratto raro nelle confessioni di donne, ma soprattutto quasi assente nelle autolesioniste scrittrici lesbiche (fatta eccezione per Margherita Giacobino), fa da padrona e sgomita anche l’amarezza di tante rinunce. E’ un’isola tra ironia linguistica e metaletteraria, nel mare delle manipolazioni, rimandi interni, stravaganze significanti, per energici salti di umorismo secondo uno stile che rimanda solo alla propria sostanziosa densità.

Così nelle vicende di Isabel Caterina Margherita Dani Sylvie e compagnia di Paola cantando, dietro cui con ogni evidenza si celano personaggi reali riabilitati dalla fantasia(“I personaggi vivono sempre e comunque altre vite”) riconosciamo le gesta eroicomiche delle pioniere della porta accanto, le aperitiviste di piazza delle Erbe, le compagne amanti degli incontri oltre domenicali e oltre i recintati locali periferici,ma anche le esotiche delle atmosfere catalano-californiane con le vincenti e palestrate, tutte canotta e muscoletti, il cinema omoerotico, Moana Pozzi e Jodie Foster , il fumetto cyber - punk , la pragmatica delle tricoteuses che non smettono di chiacchierare davanti al patibolo delle Figlie, reliquiario di immagini ed esperienze archiviate ,di cui la nostra autrice si è nutrita in modo bulimico, selezionato in seguito, cerebralmente catalogato, per quel che serviva al progetto irriconoscibile di un autoritratto evergreen delle doriangray..

Alla fine della favola, non potremo neanche richiudere il libro in un genere, perché, come ogni buon scrittore, Paola Guazzo sceglie il suo argomento tra quel che le è più vicino,quel che conosce meglio solo per scrivere senza giustificazione. Mentre le storie di cui ci narra, che è poi un'unica storia, sono lontane anni luce dalle tinte carandache delle principesse rosa, o dalle Winterson signore delle riviste di dogana e di frontiera lombardoveneta che sia. Insomma, forse anche le brave(rie) picaresche lesbiche sono un paradossale pretesto per versare in modo torrenziale sulla pagina quella magmatica e parcellizzata esperienza di vita in cui, annaspando, non stentiamo a riconoscerci.